lunedì 29 luglio 2013

Recensione MEGADETH - SUPER COLLIDER



Che i fasti non siano più quelli di un tempo è scontato scriverlo, e la rassegnazione che serpeggia in alcuni tra gli album più recenti di Mustaine e compagni è forse più specchio dei tempi, disillusione, coerenza verso mondi e rapporti per i quali la critica stessa sembra ormai a corto di parole. L’album rappresenta tuttavia il quattordicesimo episodio di una carriera con più alti che bassi, che dal 1985 (Killing Is My Business... And Business Is Good!) ha saputo intercettare con una combinazione tagliente di testi & riff umori e tensioni, grandi cambiamenti e vuoti esistenziali, fenomeni sociali e crude considerazioni su un’America perdente, molto distante da come ce la immaginavamo. Difficile dunque pretendere continuità (d’altronde a quella pensano già Manowar e Motorhead) e chiedere alla straripante personalità di Mustaine di assecondare il nostro atavico bisogno di certezze. Sgombrato il campo da impossibili rimandi ed improbabili paragoni, lasciato alle spalle il tempo in cui credevamo alla forza del vinile e certi assalti metal avevano il fragore e l’ingenuità di quegli anni, ciò che rimane è un disco in piccola parte onestissimo, in certe sue espressioni ancora superiore alla media di quanto sia ascoltabile oggi. Kingmaker è un’ottima title-track, semplice all’ascolto e ritmicamente articolata grazie al buon affiatamento tra Ellefson e Drover, capace di un “tiro” che, espresso con sfacciata semplicità, rimane ingiusto ed esclusivo appannaggio di grandi band (o di ciò che ne rimane, a seconda di come vedete il famigerato bicchiere). La seguente Super Collider è un altro esempio di Megadeth in versione Villa Arzilla (1990) ed inesorabilmente mid-tempo, ai quali non manca tuttavia il gusto, lo sprazzo, la sintesi, l’efficacia. L’antipasto insomma non è male, e per quanto il chorus di Burn! mi ricordi Disco Inferno nella glitterata versione dei Dread Zeppelin (It’s Not Unusual, 1992, orfani del sudato Tortelvis), il disco non sembra assolutamente meritare le stroncature lette su alcune testate online. Dove cominciamo ad assistere all’avviluppo è a partire dalla seguente Built For War: nonostante l’incessante insistenza in battere la canzone sembra arrivare spompata al basico ritornello, per ravvivare il quale si tenta di alzare il tono, per poi giocarsi la carta del coro grave, un grande classico anni ottanta che dovrebbe sempre garantire la buona riuscita della manovra elusiva. In realtà la sensazione è quella di uno sfilacciarsi incipiente, di un enorme punto di domanda costituito dalla parte centrale di Super Collider nel quale l’incauto ascoltatore comincia ad affondare il piede. Se escludiamo l’apprezzabile contributo di David Ellefson, che con qualche svisata di basso riesce sempre a sostenere le canzoni nei loro momenti più traballanti, la parte centrale del disco pare un insipido riempitivo che vanifica quanto di buono presentato nei minuti iniziali. Parti parlate e brani dall’appeal scontato sono la cifra stilistica di una musica che perde progressivamente nervo, carattere, coerenza, alla ricerca di un’ascoltabilità media, garantita dalla sua ingenua ovvietà. Off The Edge, Dance In The Rain, Beginning Of Sorrow e la quasi country The Blackest Crow vantano - si fa per dire - titoli da metal tricolore, tanto sanno di emulazione stantia, di vincere facile, e forse anche di presunzione nei confronti di un pubblico che, a sorpresa, negli anni si è fatto sempre più scafato, critico ed esigente. Super Collider ha il merito di sancire, oggi, l’inutilità del brand per tentare un assalto duraturo (perchè, va detto, il disco ha fatto inizialmente bene in classifica) al mercato ed alla nostra memoria: tanta è la scelta di musica disponibile, legale e illegale, in download o in streaming, che il semplice compitino non basta più per ripararsi dietro la corteccia di un minimo sindacale che perpetui se stessi, dall'alto del piedistallo. Nonostante abbia sempre apprezzato le “escursioni” della band americana (Angry Again dalla colonna sonora di Last Action Hero e 99 Ways To Die da quella di The Beavis And Butt-Head Experience rimangono tra le mie canzoni preferite, insieme a tutto Countdown To Extinction e Youthanasia, alla faccia degli imprescindibili classici anni novanta), Super Collider pari adagiarsi davvero troppo, dovendo ricorrere ai mezzitoni grunge di Don’t Turn Your Back e ad una cover facile facile dei Thin Lizzy (la potente Cold Sweat, riproposta recentemente dal vivo con una lunga e prestigiosa serie di musicisti ospiti tra i quali Slash, Jason Newsted, Vinnie Paul Abbott e Zakk Wylde) per risollevare, almeno nel finale, il confuso e tramortito capo. Il quattordicesimo album della band capitanata da Mustaine ha il merito di farci riflettere sul modo in cui i gusti cambiano, le aspettative aumentano, i ricordi sbiadiscono e l’attenzione si concentra sul presente. “Ha le capacità ma potrebbe applicarsi di più", dicevano alle nostre mamme le maestre delle elementari, e chissà se ci credevano veramente, o se piuttosto utilizzavano l’adagio per non offendere l’orgoglio del genitore di fine anni settanta, che la rispettava e quasi la temeva, la maestra. Bene, in questo album l’unico impegno davvero avvertibile sembra quello profuso per condurlo in porto, impreziosendone la carcassa con una serie di filler che tradisce ogni speranza, anche quella di chi un minimo di fiducia, come accade nello sport pur al cospetto di un avversario palesemente più forte, non la farebbe mancare mai. Oggi scegliamo invece di sognare meno, e divoriamo di fretta, persi tra le notifiche e le morbide carezze al touchscreen, in un saporitissimo ed adulterato fast-food di musica, rapporti interpersonali, incertezze vere e presunte, consumatori di un senso di insicurezza che non lascia spazio ad espressioni mezze, indecisioni ed ambiguità. Per quanto Super Collider rimanga inarrivabile per molte band che non riusciranno mai a carpire il segreto dei suoi singoli, l’album tradisce l’attenzione del fan per come lascia marcire i frutti di un avvio discreto, nella malinconia da titoli di coda di una Forget To Remember che senza simili premesse si sarebbe apprezzata di più, in una produzione ordinata (a cura di Johnny K e dello stesso Mustaine) ma per nulla ispirata, in una generale mancanza di sprazzo tecnico/artistico che a questo riso in bianco fa mancare pure qualche colorato fuoco artificiale, come quelli sulla spiaggia la notte di San Lorenzo, che almeno uno sporadico botto - a spezzare un buio profondissimo - ce lo avrebbe potuto regalare.

[5]

Metal, 2013

Tradecraft

Tracklist:
  1. Kingmaker
  2. Super Collider
  3. Burn!
  4. Built For War
  5. Off The Edge
  6. Dance In The Rain
  7. Beginning Of Sorrow
  8. The Blackest Crow
  9. Forget To Remember
  10. Don’t Turn Your Back
  11. Cold Sweat
Line-up:

Dave Mustaine (Voce, Chitarra)
Chris Broderick (Chitarra)
David Ellefson (Basso)
Shawn Drover (Batteria)

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