martedì 19 aprile 2011

Recensione | HEATHENDOM - THE SYMBOLIST (2011)



Originariamente pubblicato su Metallized.it

Formati dai chitarristi Lefteris Vourliotis e Michail Vlavianos nel 1998, i greci Heathendom(paganesimo, in italiano) si presentano al pubblico con questo The Symbolist, secondo full-lenght dopo il demo Heathendom (2005) ed il debut-album Nescience (2008). Il quintetto ellenico propone un mix di non facile assimilazione, a cavallo tra power, classic e doom, con influenze progressive (evidenti soprattutto in certe parti di batteria) e rintocchi da horror movie soundtrack che fanno capolino nelle parti iniziali dei brani. Spunti ed influenze tra le più varie quindi, per una proposta ad ampio spettro che fa intraprendere l'ascolto con curiosità.

Endistancement By The Null Position si apre con il lento incidere di chitarre e cori, aggraziato da un'ottima resa dinamica: la canzone sfocia in un elaborato mid-tempo, con un chorus decadente ed originale a costituire il preludio per parti parlate dal sapore cinematografico. La traccia può considerarsi come una presentazione ricca e complessa, una perifrasi musicale, un "girarci intorno" che sembra non voler mai riconoscersi in qualcosa di più definibile e strutturato. Non nuovi ad episodi di durata importante (il primo demo conteneva un'intro di trentatré minuti), il cammino degli Heathendom prosegue sui semitoni di Alternate Sickness, forte di una ritmica progressivamente più elaborata ed incalzante, per quanto costretta in tempi lenti, scanditi e tipicamente heavy, di misura rigorosa e pesante. Il chorus è ridotto a mera parte della canzone, musicalità ed orecchiabilità non pervenute, ed è piuttosto l'assolo a provocare una piacevole scossa ed a far capire che gli ateniesi saprebbero come premere sull'acceleratore, se solo lo volessero. Negli oltre sei minuti di esecuzione il brano si dilata e si dilunga e diluisce nella successione dei momenti un'altrimenti buona serie di spunti. Raffinato intro classico per la title-track The Symbolist, vibrante e promettente, dalla durata più corta e l'accensione immediata: il riffing è più riconoscibile e brillante ed il cantato, pur concedendo qualcosa in termini di espressività, meglio si adatta all'andamento furoreggiante della traccia. Alternanza tra voci alte e basse, inserti zompettanti in levare, bridge sussurrato, echi e cori para-gregoriani... ed ecco che, quasi a fare della delusione una forma di rassicurante e rassegnata certezza, dopo cotanto avvio la canzone si sfilaccia, ad assecondare quell'altezzoso gusto per la complicazione che abbiamo noi europei, specialmente se dell'area mediterranea.

Gli Heathendom vogliono dimostrare di saper fare un po' tutto, ad eccezione di un ritornello azzeccato -che evidentemente ritengono svilente- e perdono di vista l'ecosistema canzone: gli assoli stessi, dal canto loro, non possono suonare funzionali ad una melodia che, in parole povere, non c'è. My Obedience parte anch'essa pimpante, con chitarre quasi thrash ed un cantato di fierezza olimpica, che nel giro di una manciata di battute ne riconduce gli ardori a binari più classicheggianti: il chorus va identificato con attenzione chirurgica e raccolto col cucchiaino, consistendo nella semplice ripetizione delle parole My ed Obedience: ulteriori vuoti compositivi sono sottolineati dalle durate eccessive, dalla mancanza di coesione tra le parti e da pseudo-ritornelli che si riaffacciano improvvisamente dopo sgangherati intermezzi strumentali, incapaci di creare un senso di attesa in grado di valorizzarli. Introdotta da organo e strumenti a fiato, sinistra e barocca quasi si trattasse di un film dell'orrore o di un episodio di Castlevania,Black Euphoria alimenta l'ennesimo lumicino di speranza: strofa dimezzata e cantilenante, uno stacco di stampo classico ed un chorus che nuovamente si esaurisce nella ripetizione di due sole parole smorzano gli ultimi entusiasmi. Senza fraseggio, senza dinamismo nelle metriche e senza cori di una qualche presa ci troviamo di fronte all'apologia della freccia spuntata, spiazzati dalla successione casuale di assoli thrash, stacchi groovy, ripartenze improbabili ed un cantato che cerca di proporre, scolasticamente, tutto il repertorio dell'aspirante frontman. Sanctified si affossa ben presto nella scolorita lentezza generale, The Concept Of Reason vede un'originale accoppiata di basso ed archi fagocitata da chitarre ritmicamente avulse, Die Insane si rivela un mid-tempo senza una linea melodica, che è una delle cose più terrificanti che ti possano capitare ascoltando metal. Sia chiaro che, per essere positivamente valutato, un brano non deve necessariamente suonare cantabile, o smaccatamente commerciale: è vero altresì che nessuna delle atmosfere suggerite da The Symbolist diventa così densa e suggestiva da risultare palpabile. Anche volendo riconoscere agli Heathendom una propensione per le sonorità doom/metal la perplessità non diminuisce, dal momento che non si elaborano mai in modo credibile quelle "sonorità molto cupe e lente nei motivi e nei riffs, che evocano atmosfere drammatiche e decadenti, le quali vengono specificate anche nei testi spesso molto vicini all'occulto, all'introspettivo e alla sofferenza". Grazie Wikipedia, non avrei saputo dirlo meglio.Prescience Of The End è un racconto sofferto e tirato, dinamico, anche se certi accostamenti tra accordi e cantato continuano a stridere. Per il resto ci troviamo di fronte al solito pachiderma, con la delusione di avvertire spunti validi nella vivacità del riffing o nell'utilizzo della doppia cassa, che i greci scelgono di non tradurre mai in eruzione vulcanica. Proprio nel momento in cui una capatina nei Campi Elisi della melodia starebbe a pennello, ecco che la locomotiva rallenta e parte il solito assolo, completo di inutili orpelli. Ci mancava solo il suono dell'orologio a pendolo, che viene puntualmente servito nella conclusiva -e lunga anche nel nome- An Angel A Demon And A Dying God: la doppia cassa ed una ritmica che si sforza di essere briosa sostengono un brano nel quale le varie componenti sembrano meglio amalgamate, ed i cali di tono non appaiono così evidenti. Nonostante il minutaggio eccessivo possa indurre a momenti di noia, le singole parti, ad eccezione di alcuni coretti oooohhhh -di maideniana memoria, solo meno riusciti- riescono a mantenersi su standard interessanti, contribuendo ad aumentare il rimpianto per quello che The Symbolist sarebbe potuto essere. 

L'immagine finale, quella che nel film Wild Wild West rimane impressa nella retina, è quella di un lento fluire, ma troppe e disordinate sembrano le pulsioni all'interno della band affinché si possa conseguire un risultato profondo e stilisticamente omogeneo. Il tutto suona troppo contaminato e variegato, pur ancorato alle comuni radici classiche, per risultare “deprimente” nella componente doom o trascinante in quella metal: il cantato, tecnicamente competente ma assai poco ispirato, non aggiunge nulla al singolo brano e solo alcune delle intro iniziali possono dirsi riuscite per il felice accostamento delle sonorità, o la colta citazione. La speranza è quella di trovare, negli album che verranno, uno direzione stilistica più netta, in grado di superare quella confusa ed inconcludente ripetitività della quale The Symbolist è platealmente intriso. 

Voto: 60

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