mercoledì 20 aprile 2011

Recensione | AND YOU WILL KNOW US BY THE TRAIL OF DEAD - TAO OF THE DEAD (2011)


Originariamente pubblicato su Metallized.it

Settimo album degli ...And You Will Know Us By The Trail Of Dead (semplicemente Trail Of Dead, d'ora in avanti), band statunitense formata nel 1994 da Conrad Keely e Jason Reece(entrambi cantanti, chitarristi e batteristi), Tao Of The Dead è un album liberamente ispirato al Tao Te Ching, opera breve di soli 5.000 caratteri -datata 300 a.C. circa- che per la sua difficoltà di interpretazione continua ad essere studiata e commentata ancora oggi. Il libro è oscurissimo, racconta Wikipedia, criptico, a volte ambiguo, proprio come la musica con la quale il quintetto texano ammanterà i prossimi minuti della nostra giornata. Inquieti, sorprendenti, creativi, sempre alla ricerca della soluzione stilistica, dell'accostamento ardito, del momento perfetto per fermarsi e poi ripartire, i Trail Of Dead consegnano al nuovo anno un album in divenire, una ricerca musicale dalla consistenza magmatica, uno studio per tentativi a scavare nelle sensazioni che la musica può regalare, e nel disagio nel quale può sorprenderci il silenzio al termine dell'ascolto. Molto più, e per alcuni molto meno, di una somma algebrica di canzoni, dunque, perchè di queste -se intese come sequenze di note ordinate- quasi non v'è traccia. Pochi schemi, ed al loro posto un miscuglio intelligente di anarchia e coraggio nel concedere, ogni volta ad uno strumento diverso, il compito di suggerire la direzione che prenderà il resto della band.

Introduction: Let's Experiment la dice lunga sulla visione aperta dei nostri: il brano tratteggia il sorgere del sole su un mondo di fiaba, ma basta poco per cominciare ad avvertire un'angoscia strisciante ed inarrestabile, che si insinua ad ingrigire il tutto. Pure Radio Cosplay ci inonda di suoni seventies, ovattati e compressi per plasmare una massa rotolante che travolge, Rolling Stones appunto, con pause e accelerazioni, vuoti e pienissimi che si susseguono all'interno della stessa strofa, a ribadire l'intento di non sottostare. Un cantato sofferto ma morbido, adolescenziale e straordinariamente accorto nel rispettare la parte, aggiunge suggestione a questo Alice In Wonderland dal contorcersi imprevedibile e sinuoso, musica per immagini che affascina e regala una sensazione di spossatezza per il fiato che sembra respirarci, mentre avviciniamo i secondi finali di ogni traccia. Frequenze medie sugli scudi nell'afa texana diSummer Of All Dead Souls (l'album è stato registrato a El Paso), e la batteria là in fondo, a scandire i tempi di questa tensione ideale tra fantasie anni settanta nelle parti lente e richiami veloci di moderna cattiveria, capace di fare scintille costretta com'è negli spazi angusti di una stessa strofa. Chitarre effettate ed ancora più effettate tastiere danno vita ad un suono piacevolmente denso, pieno, per dare spazio ad una creativa ricerca di spunti che si lascia sfrontatamente alle spalle le culture, i linguaggi e le etichette di genere. Piccoli tratti di canzone emergono in superficie, preziosi e sfuggenti, quasi a giustificare la circostanza che Summer Of All Dead Souls sarà il singolo scelto per la promozione dell'album, per poi venire risucchiati nel vortice della massa musicale. Cori in sottofondo, parlato maschile e cantato femminile si fondono in Cover The Days Like A Tidal Wave, in una magnetica disposizione dei suoni che richiama RadioheadMonster MagnetSteppenwolf e le atmosfere urban-vampiresche diTwilight. Il buio orchestrato di Fall Of The Empire cede presto il passo a The Wasteland, rock anglosassone dalle melodie inaccessibili ed acerbe, di un verde perfetto e di un'asprezza velenosa. Alla successiva Spiral Jetty il compito di introdurre tre momenti brevi: Weight Of The Sun (or the Post-Modern Prometheus) fotografa John Lennon e Jimi Hendrix che si danno la mano, ed in nome loro accetta di piegarsi alla forma di una canzone con tanto di strofa e ritornello; non facciamo in tempo ad assimilarne le note che è già tempo di Pure Radio Cosplay (Reprise), che sulle onde di Satisfaction degli Stones riprende e sviluppa le premesse della precedente traccia numero due; Ebb Away conclude il trittico con i toni soffusi e rassegnati della delicata If You Leave dei Nada Surf, misurata nel chorus, timida nella melodia, ambigua in certi tratti ed indecisa -come una Lolita- su quale lato mostrare alla curiosità morbosa dell'ascoltatore. Così come si sospetta che le tavolette dalle quali era composto il Tao Te Ching, mal rilegate, si slegassero frequentemente in modo tale che blocchi di caratteri si mescolassero nel tramandarlo, allo stesso modo i brani che compongono Tao Of The Dead sembrano figli di un montaggio impazzito e nevrotico, o piuttosto mirato alla completa imprevedibilità. C'è comunque un senso della misura, di una struttura dalle maglie amplissime, per cui la libertà non si trasforma in caos, e la band non perde di vista la figura dello spettatore in ascolto. Non si spiegherebbe altrimenti l'incanto di The Fairlight Pendant, non-canzone strumentale forte di un'intro a velocità crescente, spiazzante nell'avvolgente accelerazione e nella spontaneità con la quale si sviluppa. Ogni elemento è mutevole, sfocato ma riconoscibile, di una viscosità che allontana ed ancor di più attrae, allo stesso tempo. Come nella chilometrica Strange News From Another Planet, sedici minuti sedici di odissea musicale, ovattata, a tratti melodica, convessa ed impenetrabile, dalla struttura dilatata ed irregolare, come la nostra immagine sugli specchi deformanti dei luna-park di paese. Voci, giri di basso e chitarre distorte si susseguono creando una suggestione che non annoia, ed è ingenuo, di quella ingenuità che possiedono i bambini, arrendersi a questa vorticosa girandola di suoni, capace di prendersi, con genitoriale autorità, tutto il tempo necessario per continuare a stupire. La canzone vive di luce propria e modula il respiro, detta il tempo, con la melodia a rappresentare il risultato di una ricerca imperfetta e coraggiosa, capace di eguagliare i più maturi Pink Floyd nelle conclusioni alle quali giunge in certi, ineffabili, momenti. Canzone che sembra trovare una sua forma dopo sei minuti di voli pindarici, facili entusiasmi ed amare delusioni, in un vortice di sentimenti che convince nel finale a rifuggere la melodia, la costruzione musicale più riconoscibile, confidando un'ultima volta in qualcosa di più interessante dietro l'angolo.

Verrebbe voglia di augurare "buona fortuna" a questi instancabili viaggiatori del rock, ed è di una pesantezza insopportabile il silenzio che ti avvolge alla fine dell'ascolto. Come se non solo la musica, ma la vita stessa, se ne fosse andata via, con un soffio. Vuoto destabilizzante, accecante, che ti coglie prigioniero di uno stordimento bellissimo. 

Voto: 82/100

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