domenica 24 aprile 2011

MUSICA | Recensione JANE - ETERNITY (2011)

Originariamente pubblicato su Metallized.it

Insieme ad Udo Lindenberg ed i Kraftwerk, i Jane costituivano una delle realtà musicali più importanti nella Germania divisa degli anni settanta ed ottanta. Alfieri di quel krautrock che avrebbe unificato e prodotto in varia misura forme musicali nuove, a partire dal rock progressivo o dalla musica elettronica tedesca, fino a contribuire alla nascita ed evoluzione della musica Ambient e New Age. Tour nazionali ed internazionali e venticinque tra LP, CD e DVD (per un totale di due milioni e mezzo di copie vendute) sono la testimonianza della creatività e della popolarità della musica proposta dalla band. In seguito a numerosi cambi di line-up ed orientamento stilistico, il fondatore, compositore principale ed arrangiatore, il tastierista Werner Nadolny, decide nel 2007 di dare alla band il nome di Werner Nadolny's Jane, per ricondurre sotto la propria egida il suono della band alle origini, senza compromessi né concessioni alle mode del momento. I due tastieristi presenti nella formazione attuale (Doctor Bogarth e lo stesso Nadolny) ben sottolineano il ruolo predominante dello strumento all'interno delle lunghe trame create dal gruppo, e con esso la volontà di riprendere un percorso coerente con le proprie radici, anacronistico e per questo coraggioso ed a suo modo originale. A condire il piatto si aggiunga l'interesse di Nadolny per la numerologia, secondo Pitagora “essenza di tutte le cose”, che ritroviamo nei continui rimandi dell'album al numero sette.

Eternity si apre dunque con un trittico di una solarità assonnata, propria del momento del risveglio, perfetto per una calda mattina di aprile come quella che accompagna il nostro attento ascolto. BeautyProsperity e Media sono i tre atti, tra loro separati e ben identificabili, di una canzone dai sapori seventies, tra sonorità Hammond e chitarre elettriche di quella distorsione rilassata, tra EaglesGenesis e Supertramp, che riporta alle mente i primi, timidi esperimenti con le tecnologie. Tempi dilatati da intermezzi di tastiere, suoni elettronici di straordinario calore, esecuzione compassata, sono le tinte vivide di una canzone di quasi quindici minuti che, dopo un avvio interlocutorio, lambisce sonorità rock mature ed articolate, tra House Of Lords eWinger più sperimentali. Tutto estremamente tranquillo e di gran classe, un Gran Turismo rock di una musicalità accessibile e corale, di una ricercatezza delicata e solo apparentemente superficiale, soprattutto nella finale ed orecchiabile Media, a comporre un brano metereopatico che trova in una bella giornata il complemento ideale della propria freschezza. Circle Of Hands, cover degli Uriah Heep, si innesta alla perfezione nell'elaborato musicale intrapreso, al punto da risultare un'ideale continuazione del Trittico che l'ha preceduta. Today is only yesterday's tomorrow è una conclusione crono/filosofica alla quale ero giunto anche io diversi anni fa, ma cantata dall'intenso Torsten Ilg, che accompagna con i propri vocalizzi un finale strumentale di assoluta raffinatezza, fa -diciamolo- tutto un altro effetto. 

Pur senza premere sull'acceleratore, il sestetto acquisisce progressivamente sicurezza e tono, mettendo un primo, timido passo, in territorio hard rock con la successiva Borrowed Time, assai orecchiabile ma poco radiofonica per via della lunghezza impegnativa (oltre i sette minuti, come il resto delle tracce). La canzone è un microcosmo a sé nel quale chitarra ritmica, ride in quattroquarti e chorus anthemico danno vita ad un vero e proprio spettacolo, quasi un musical: l'assolo che segue è una canzone nella canzone, all'interno della quale si intrecciano cori gregoriani, tastiere sussurrate che poi spiccano il volo e riff di chitarra parossistici, secondo una progressione molto ben riuscita, calibrata nella successione dei momenti e capace di conferire un'evidente identità. La capacità di muoversi con agilità all'interno di composizioni lunghe, che non risultano mai noiose né inutilmente sovrastrutturate, è la sorpresa più interessante dei Jane del ventunesimo secolo; banalissima dimostrazione che la classe non è acqua, e certi valori, se riproposti con onestà e convinzione, conservano la loro consistenza anche a distanza di anni. Eternity contiene canzoni che assumono la responsabilità della propria estensione, che ne sopportano con autorità il peso, e che sanno ciascuna costruire, nel fluido succedersi dei secondi, il racconto intenso proprio del cortometraggio. Space Waters è in questo senso cinematografica, capace di raccontare un complicato turbinio di sentimenti e stati d'animo, dal dramma profondo alla speranza della rinascita, dall'inverno alla primavera, dal torpore dell'anima alla progressiva presa di coscienza, dallo scorrere impetuoso di una cascata al battito d'ali di una farfalla, descrivendo ogni momento con attenzione e sensibilità. Tra Alice in Wonderland e la colonna sonora del telefilm Wonder Years (Blue Jeans, in Italia), le acque di Space Waters sono di una potenza struggente ed appassionata: la canzone cresce poco a poco con naturalezza verosimile, a conferma di una sensazione di onestà che ogni traccia sa di dover comunicare.

Il minutaggio serve e non è aggiunta inutile. Tutto conta per creare l'illusione di un crescendo consapevole e regolare, di uno sbocciare di note e colori tra le trecce di un assolo, per un ascolto che può essere attento e disinvolto al tempo stesso, e si presta ad una pluralità di letture. Quella di Werner Nadolny e soci è una classe che conquista, un ascolto che impegna e riappacifica, di una dolcezza non melensa capace di toccare, attraverso una produzione non troppo affettata, le corde più profonde e sensibili. Stessa magia in Roses On The Floor, nella quale una ritmica semplice e lenta non impedisce un forte coinvolgimento, una proiezione emotiva ed un'attesa partecipe in capo all'ascoltatore: come nelle canzoni che l'hanno preceduta, bisogna dare il tempo alle cose per farle succedere. Ancora una volta, le aspettative non vengono tradite: tutto suona estremamente cadenzato e scandito dai timpani e dalle percussioni tribali delle battute iniziali, per poi innestarsi in una ritmica che fa quasi tenerezza quanto è elementare ed ingenua, ad introdurre l'ennesimo assolo di una spontaneità che si farebbe quasi un torto a raccontarla, anch'esso parte della narrazione e non semplice riempitivo.A Little Big While è davvero una chiusura straordinaria: coerente con l'impostazione dei brani che l'hanno preceduta, aggiunge ritmo ed orchestrazione, corpi e profumi e voci femminili, per lasciare all'ascoltatore una sensazione di vitalità, voglia di rialzare il capo e provocare il cambiamento.

Davvero curiosa ed illuminante la riproposizione a fine tracklist di tre brani in versione “radio-edit”: Borrowed Time e Triptych in particolare dimostrano tutta la loro validità e freschezza anche così condensate, in una silhouette più snella che nulla a toglie alla bellezza delle composizioni, a riprova di un materiale musicale valido qualunque sia la forma, commercialmente radiofonica o più autoriale, nella quale viene proposto. Risvegliarsi, stare ed emozionarsi insieme, vittime di una solarità accecante: Eternity è una trama fitta e robusta, un biglietto di sola andata, con la carica magica di quei vinili le cui etichette, lanciate vorticosamente a 33 giri al minuto, sembravano fatte apposta per ipnotizzarti e condurti per qualche attimo fuori dal Tempo. 

Voto: 81/100

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